Premio Gianni Massa

Cagliari, 8 Marzo 2019

Il Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Antonio Martusciello, è intervenuto a Cagliari alla prima edizione del Premio “Gianni Massa”, promosso dal Co.Re.Com Sardegna in collaborazione con “Giulia” (Giornaliste Unite Libere Autonome) e dedicato al rapporto tra media e parità di genere. Previste tre sezioni: “Giornalismo”, dedicato alla memoria della programmista e regista Rai Piera Mossa; “Università” e “Scuola”. L’intento dell’iniziativa è quello di sensibilizzare sui temi del rispetto e della parità dei genere nell’informazione, contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini.

Viviamo in un’epoca in cui parole, azioni, abitudini si trasformano in dati. in questo contesto, come cambia la fruizione della notizia?

È innegabile come oggigiorno social network e piattaforme mettano a disposizione degli utenti un insieme di notizie con rilevanti impatti sul pluralismo. Il motore di questa intermediazione sono gli algoritmi che implementano un modello matematico che si alimenta dei dati acquisiti dagli utenti.

L’uso di algoritmi ci dà spesso notizie basate sui dati che abbiamo pubblicato sulla Rete: ricerche, like, amici, ecc. La conseguenza di questo sistema è che l’offerta anche informativa è “cucita” addosso all’utente. In termini di formazione di opinioni politiche, al cittadino vengono offerte notizie e analisi politicamente e socialmente collegate a lui, escludendo quindi una serie di informazioni più distanti che possono influenzare la capacità di avere un ragionamento equilibrato per sviluppare il pensiero critico. Il lato negativo del suo utilizzo è che otteniamo una visione ristretta e strutturata della vita e del mondo in generale.

Dobbiamo allora distinguere gli aspetti quantitativi dal quelli qualitativi.

La quantità di news prodotte rappresenta sicuramente un primo indicatore dello stato di salute del sistema informativo di un Paese. L’andamento legato alla produzione nel nostro Paese mostra che un maggior contributo in termini di output deriva dai quotidiani (nazionali e locali). Segue internet, per quel che attiene sia alla componente editoriale sia a quella social.

Ma una maggiore quantità di contenuti offerti non sempre è indice di una maggiore trasparenza, pluralità, copertura di fatti, argomenti e visioni.

Per consentire ai cittadini una più ampia opportunità di apprendere e confrontare notizie e fonti diverse anche all’interno di uno stesso mezzo, l’informazione e la sua pluralità deve essere anche resa fruibile e disponibile.

Se però interagisco solo con news in linea con le mie ideologie, in cui l’offerta corrisponde esattamente alla domanda, o ancor più gravemente essa è calibrata in base alle aspettative dei lettori, rischio di rintanarmi in una realtà parziale. Non solo. Se le idee di partenza risultano distorte, queste tenderanno a trovare conferma. Non è un caso che, secondo il Rapporto di Ricerca “Infosfera” dell’Università Suor Orsola Benincasa , il 65,46% del campione non riesce a distinguere una notizia falsa, il 78,75% non è in grado di identificare un sito web di bufale. La percentuale sale all’82,83% quando si tratta di identificare la pagina Facebook di un sito disinformativo e si attesta sul 70,28% quando si deve distinguere un fake su Twitter.

Si delinea allora un sistema che, inasprito dai filtri algoritmici dei social media e dalla presenza dei bot, è imputabile anche ai bias cognitivi umani, certamente stimolati dalle modalità di interazione in Rete.

La consapevolezza che esiste un lato oscuro di un’informazione digitale ci ha dunque ricordato l’importanza dei giornali e delle loro regole: prima fra tutte la responsabilità che la testata si assume per le notizie pubblicate.  È dunque possibile, ma anche auspicabile, che le contraddizioni insite nella Rete creino le premesse per una nuova fase di prosperità dei giornali.  Se da più parti si evoca la funzione del giornalista garante della “verità” intesa come verifica delle fonti e autorevolezza della testata, in uno scenario di overload informativo, i giornali possono essere un faro. 

Il sistema dell’informazione soffre dell’esponenziale crescita delle fake news. Quanto il giornalismo è messo in crisi?

Seppur vero è che i social media e le testate native digitali siano sempre più utilizzati dai cittadini per accedere all’informazione, altrettanto vero è che esse si collocano agli ultimi posti della classifica per attendibilità.

Questi sono percepiti come credibili da meno di un quarto di coloro che li utilizzano per documentarsi correttamente. Un maggior livello di fiducia viene, invece, riconosciuto ai mezzi tradizionali. Ad esempio, i canali televisivi in chiaro nazionali confermano il loro primato, non solo per audience, ma anche per affidabilità (in particolare, il 42,8% dei fruitori dei canali in chiaro nazionali). Opinioni analoghe tra loro di reputazione e qualità si rilevano per le testate quotidiane, ritenute affidabili o molto affidabili da una porzione di fruitori vicina al 40%, potendo contare sulla notorietà e reputazione dei marchi editoriali storici.

Ecco che allora le fake news possono in qualche modo contribuire a fare emergere il giornalismo di qualità, e non costituirne la nemesi. Da un lato un’occasione per chi lavora in redazione, dall’altro uno strumento per il lettore per orientalo nel mare magnum della Rete. Non si tratta di una posizione isolata, già qualche anno fa, l’edizione 2017 del rapporto “Journalism, media and technologies trends and prediction”, realizzato da Nic Newman per conto del Reuters institute for the study of journalism, aveva evidenziato come ben il 70% degli intervistati ritenesse che le fake finiranno con il rafforzare i media, offrendo un’occasione al giornalismo di qualità di emergere.

Non è un caso, poi, che, già qualche anno fa (nel 2013), Jeff Bezos, fondatore di Amazon e re dell’e-commerce, abbia acquistato (per un prezzo irrisorio: solo 250 milioni di dollari), uno dei brand editoriali più prestigiosi, il Washington Post, che aveva chiuso il suo ultimo bilancio con perdite per 53,7 milioni di dollari, con un crollo del 44% negli ultimi sei anni.

Un imprenditore del calibro di Bezos avrà sicuramente intravisto notevoli potenzialità nell’editoria. Oggi infatti la testata è tornata a macinare profitti: dal 2016 gli abbonati online alla testata sono triplicati, arrivando a superare il milione e il fatturato, sulla spinta della raccolta web, è stato maggiore rispetto alle attese. Recentemente poi, in occasione del Super Bowl, finale del campionato di football americano, il Washington Post è sceso in campo, con una clip pubblicitaria, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale del giornalista nella vita di tutti i giorni. “Quando andiamo in guerra, quando la nostra nazione è minacciata, c’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo”, dice la voce narrante mentre scorrono le foto di cronisti catturati o uccisi mentre esercitavano la loro professione.

Certo, i dati e le informazioni in mano al Washington Post risultano fondamentali per attrarre budget pubblicitari. Ecco allora il punto centrale.

L’informazione online continua a essere finanziata in modo prevalente attraverso la pubblicità. Generalmente, i modelli distributivi di compravendita sono basati su meccanismi automatici, con la conseguenza che gli incentivi vengono offerti in base alla capacità di generare maggiore traffico, da parte del player (piattaforma, produttore di notizie, inserzionista), nella distribuzione. Se non si valuta la qualità dell’informazione ma il mero click, è chiaro come il sistema possa favorire quei contenuti sensazionalistici, non sempre verificati, che riscuotono maggior curiosità nell’utente. Il rischio è che si possa prediligere un contributo non qualificato rispetto a uno giornalistico di qualità.

Per un’inversione di tendenza, imprescindibili sono alcuni aspetti:

1.            Un’equa remunerazione agli editori, in questo senso una prima apertura si è avuta con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel Mercato Unico Digitale che ha introdotto un compenso per ogni forma di ri-utilizzo di snippets (brevi estratti di articoli di giornale) e collegamenti ipertestuali (link).

2.            La conseguente adozione di sistemi di paywall o forme di abbonamento: se la notizia costa e vale zero, che notizia è?

A tal riguardo, occorre ancorare i ricavi dei giornali sempre più dagli abbonamenti e sempre meno dalla pubblicità.

3.            Seguire la velocità della Rete, anche e soprattutto nel campo pubblicitario. Non mancano infatti esperimenti che introducono nuove formati assimilabili a Facebook Instant Articles, ma per l’advertising. Una nuova soluzione è disegnata per renderizzare l’annuncio in instantanea, una volta che le persone vi hanno cliccato, senza che l’utente debba abbandonare la pagina web, mobile o l’app della testata. Il formato è piazzato nel cuore dell’articolo e si apre nella pagina, aumentando il livello di interattività dell’advertising e riducendo così in modo importante i tempi di caricamento.

Certo oggi è difficile infatti immaginare che un utente possa essere disposto a monetizzare i contenuti generalisti reperibili gratuitamente altrove. Ma a lungo termine, quando i contenuti saranno disponibili solo a pagamento, si potrà nuovamente acquisire l’alta percezione del prodotto informativo di qualità.

Come superare il gender gap?

Il Global Gender Gap Report 2018 (cioè lo studio che analizza il divario uomo-donna in 149 Paesi) mostra un’Italia proattiva, ma ancora indietro. Il nostro Pese, sebbene scali la classifica passando dal 82esimo posto del 2017 al 70esimo, resta quart’ultima in Europa Occidentale e ultima di fronte ai big country.

L’indice globale sul ‘gender gap’ è pari al 68%, nel senso che per arrivare alla completa parità bisogna percorrere un altro 32% del cammino. Per arrivare alla parità di genere nella politica, nella salute e nell’istruzione a livello globale serviranno 108 anni e addirittura 202 anni saranno necessari per chiudere il ‘gender gap’ sul posto di lavoro.

Un risultato deludente che potrebbe essere invertito promuovendo un’immagine positiva, e non stereotipata della donna. Una soluzione che si rivela semplice solo in apparenza. Il report biennale Unesco sulla libertà di espressione e lo sviluppo dei media (World trends in freedom of expression and media development 2017/2018) rivela che le donne continuano a essere rappresentate in maniera insufficiente all’interno dei media. Solo un manager su quattro è donna e anche reporter e giornaliste sono in minoranza, con un rapporto di uno a tre con i colleghi maschi; persino gli esperti intervistati su svariati temi sono donne solo in un caso su cinque.

Il motivo? Le storie e le notizie sulla disuguaglianza di genere rappresentano solo il 5% delle informazioni trasmesse dai mass media europei e quelle che sfidano gli stereotipi di genere sono addirittura il 3%.

Anche negli Stati Uniti la situazione non sembra essere proprio idilliaca. Il Rapporto Annuale del Women’s Media Center, pubblicato il 21 febbraio scorso, ha mostrato come, in tutte le piattaforme mediatiche, a fronte del 63% di “bylines and credits” degli uomini, le donne ricevano solo il 37%.

tutt’oggi gli squilibri di genere continuino a esistere a riprova di un percorso lungo, e specchio di un tempo che tende ancora a legittimare e rafforzare una diseguaglianza di genere in senso più ampio, sia nel tessuto sociale che in quello politico.

Il tema del rapporto tra mass media e donne d’altronde è annoso e non è di facile risoluzione. Già negli anni ’70 negli Stati Uniti e in Inghilterra, l’Ufficio nazionale della pubblicità da una parte, e il Sindacato nazionale dei giornalisti dall’altra, avevano invitato i propri iscritti a tenere un linguaggio parlato, scritto e visivo privo di stereotipi. In Europa, l’attenzione sul tema è stata posta sin dal ’79, quando l’Unesco si occupò di una ricerca sistematica volta ad analizzare il rapporto tra i mezzi di comunicazione di massa e il ruolo, l’immagine e la condizione sociale delle donne nei paesi occidentali e negli Stati Uniti.

Non è un caso poi che sia recentemente sorto il primo Consiglio Europeo per l’uguaglianza di genere per discutere e affrontare i temi salienti che riguardano l’empowerment delle donne nel mondo. Si registrano quindi vari passi in avanti. Non da ultimo, importante è la legge Golfo-Mosca, adottata nel 2011 (n. 120), la quale ha imposto che, in un tempo massimo di dieci anni, almeno un terzo dei membri degli organi sociali delle società quotate sia di genere femminile.

Ma affinché questo gap venga superato occorre puntare principalmente sui media. I mezzi di comunicazione come forme culturali possono influenzare la costruzione dell’identità di genere insieme al pieno sviluppo e processo democratico di una società. Proprio in considerazione del loro potere e della loro influenza, il vero cambiamento deve partire da essi stessi. Questi, attori in grado di attuare il processo interpretativo della realtà, possono veicolare o meno stereotipi ed essere quindi i primi a promuovere un’immagine priva di pregiudizi.

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