Consiglio Regionale del Piemonte, “Disinformazione e fake news”

Un saluto ai presenti e un ringraziamento particolare agli organizzatori di questo convegno che rappresenta un’importante occasione di confronto e dibattito su un tema insidioso come quello della disinformazione.

Mi sia quindi consentito salutare con favore il progetto – oggi presentato – che sarà veicolato per il tramite dell’Ufficio Scolastico Regionale alle scuole superiori. 

È proprio dai più giovani che occorre partire per stimolare quel concetto di educazione che, applicato ai nuovi strumenti comunicativi, sia capace di fornire gli strumenti necessari per valutare le notizie che circolano in Rete. Educazione deriva da “ex-ducere” e intende un’attività di stimolo, vuole tirar fuori, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Non si tratta quindi di inculcare nell’individuo contenuti e nozioni, ma, piuttosto, di voler stimolare la capacità critica del soggetto.

Un metodo che ricorda in chiave moderna quel learning by doing introdotto dalla pedagogia di Dewey[1], mediante il quale la conoscenza è frutto di un percorso pragmatico che non significa ricevere passivamente delle nozioni, ma elaborare attivamente delle idee.

I ragazzi di oggi devono domandarsi quali siano le garanzie che la grande quantità di informazione che si trova gratuitamente online è in grado di offrire loro. Il nuovo assetto del settore dell’informazione digitale pone, infatti, importanti questioni relative all’autorevolezza, l’originalità e la qualità dell’informazione.  La sfida del futuro non è avere maggiore informazione, ma è avere più qualità nell’informazione.

Già diversi anni fa, in modo quasi profetico, il World Economic Forum ammoniva su come la diffusione di notizie non verificate attraverso i social media fosse uno dei più grandi rischi globali verso il nostro futuro e la nostra prosperità.  Oggi questa previsione è quanto mai verificata.

È dunque necessario appurare l’accuratezza con la quale l’informazione viene prodotta svolgendo una serie di attività quali la scelta e la verifica delle fonti, la possibilità di dare conto delle diverse opinioni che circolano attorno a un fatto o a un avvenimento, la possibilità di raccontare un evento da vicino, come osservatore diretto, che richiedono un lavoro da parte del giornalista.

Anche se può sembrare un paradosso, si può in sostanza dire che il rovescio della medaglia della moltiplicazione delle fonti di informazione derivante dal digitale sia quello di una minore quantità di risorse a disposizione per produrre contenuti originali e di qualità. In questo senso, il pluralismo rischia di essere solo “quantitativo”, laddove esso deve, per sua stessa natura, essere anche “qualitativo”.

La BBC qualche anno fa ha intervistato un gruppo di esperti internazionali circa le sfide che attendono la nostra società nel 21° secolo: la prima che gli esperti hanno individuato è “combattere la disinformazione online”, definita come una: “social condition, like crime”.

Del resto, è inutile cercare di attuare il diritto a un’informazione corretta, se non si è prima garantito quello di ricevere gli strumenti per interpretarla. Come rilevava Aristotele, “colui che cerca la formula per distinguere a priori il vero e il falso non conosce la logica della verità”.

IL SISTEMA DELL’INFORMAZIONE

Il mondo dell’informazione è soggetto a una radicale e crescente trasformazione, che sta rapidamente coinvolgendo forme di consumo, modelli di business, modalità di generazione, composizione e offerta del prodotto informativo, fino ad arrivare alla natura stessa della professione giornalistica.

Dal lato della domanda, si evidenziano modalità di fruizione differenti rispetto a quelle tradizionalmente conosciute. Se nell’informazione classica, ci si trovava dinanzi a un attore, piuttosto passivo, di un sistema consolidato, in quella attuale, i cittadini hanno, di converso, un ruolo sempre maggiore. Questi partecipano alla generazione delle notizie, in quello che assume le fattezze del citizen journalist, sia perché con le tecnologie comunicative, quali tablet, smartphone, anche gli users possono produrre materiale di interesse giornalistico, sia perché, con l’avvento delle piattaforme di condivisione sociale, essi possono attivamente partecipare al dibattito. Questi poi sono posti in una posizione spesso privilegiata se consideriamo che essi, attraverso la “viralità” delle comunicazioni in rete, diventano potenziali amplificatori delle news.

Dal lato dell’offerta, la copiosità dell’offerta (gratuita) di informazione sul web, attraverso anche l’intermediazione delle piattaforme online, genera fallimenti del mercato sia per la difficoltà di stimolare il pagamento da parte degli utenti per i contenuti fruiti, sia per l’acquisizione di quote di fatturato pubblicitario con le piattaforme di aggregazione, ricerca e condivisione. Un sistema che rischia di innescare una spirale tesa a una drammatica riduzione delle risorse per gli editori tradizionali, a cui vengono a mancare i fondi necessari per produrre e stimolare un’informazione di qualità.

Anche se può sembrare un paradosso, si può in sostanza affermare che il rovescio della medaglia della moltiplicazione delle fonti derivante dal digitale sia quello di una minore quantità di risorse a disposizione per produrre contenuti originali e di qualità. In questo senso, il pluralismo rischia di essere solo “quantitativo”, laddove esso deve, per sua stessa natura, essere anche “qualitativo”.

La sfida del futuro quindi non è avere maggiore informazione, ma è avere più qualità.

Certo non possiamo ritenere che l’informazione online sia costituita solo dai social.

Dobbiamo infatti precisare come esista una vasta pluralità di fonti che si differenziano per tipologia di editore (tradizionale, nativo digitale), fase nella catena produttiva e distributiva dell’ecosistema informativo (editori, blog, piattaforme), modalità di diffusione (editoriale e algoritmica).

Nell’ambito di questa differenziazione, però, è innegabile che l’incidenza delle fonti c.d. algoritmiche sia importante. L’analisi delle fonti digitali attraverso cui i cittadini si informano mostra la forte presenza delle piattaforme digitali nella dieta mediale dei cittadini, accompagnata da una minore presenza dei marchi editoriali.

L’alterazione del funzionamento dell’algoritmo è emersa a seguito di un’inchiesta del New York Times. Questa ha evidenziato quella pratica attraverso cui vengono acquistate centinaia di migliaia di “seguaci” per far parlare di sé e garantirsi visibilità e che sagacemente la testata ha definito come The Follower Factory (ossia fabbrica di follower). Il rapporto afferma che sarebbero ascrivibili alla società Devumi almeno 3,5 milioni di profili automatici, molti dei quali sono venduti ripetutamente e che almeno 55.000 degli account analizzati “usino i nomi, le immagini del profilo, le città di origine e altri dettagli personali di veri utenti di Twitter, compresi i minori”.

È chiaro quindi come il fenomeno sia più ampio e non riguardi solo le fake news: queste costituiscono l’effetto di un enorme sistema disinformativo. Il regolatore, infatti, sarà, in una prospettiva non troppo futuribile, chiamato a confrontarsi con un mondo di macchine connesse tra di loro (il c.d. IOT) oppure con un software in grado di influenzare la volontà degli individui.

IL MINORE NEL CONTESTO DIGITAL MEDIA

Nel contesto iperconnesso, il grado di penetrazione delle nuove tecnologie, soprattutto tra i più giovani, che crescono in un’ottica interattiva, è innegabile. Anche i dati lo dimostrano.  Il 16° Rapporto Censis sulla Comunicazione conferma che gli italiani sono sempre più digitali e connessi, soprattutto i più giovani.

Si registra ancora un aumento dell’utenza di internet: dal 78,4% al 79,3% della popolazione, con una differenza positiva di quasi un punto percentuale in un anno – evidenzia il Rapporto. Gli italiani che utilizzano gli smartphone salgono dal 73,8% al 75,7% (con una crescita dell’1,9%, quando ancora nel 2009 li usava solo il 15% della popolazione). I social network più popolari sono YouTube, utilizzato dal 56,7% degli italiani (ma il dato sale al 76,1% tra i 14-29enni), Facebook dal 55,2% (dal 60,3% dei giovani), Instagram dal 35,9% (dal 65,6% degli under 30). E WhatsApp è utilizzato dal 71% degli italiani: il 3,5% in più in un anno (si arriva all’88,9% dei 30-44enni, ma si scende al 30,3% tra gli over 65).

Accanto a un salutare e innegabile pluralismo comunicativo, non sempre, però, gli utenti – e i più giovani – sono in grado di valutare le insidie che la nuova comunicazione di massa genera, forse per la scarsa percezione dei rischi che si celano.

«Nell’era digitale, sarebbe ingenuo continuare a pensare che la verità venga automaticamente posta al di sopra della menzogna. Innanzitutto, dobbiamo trasmettere ai giovani la capacità di comprendere di chi e di che cosa ci si può fidare online, affinché diventino cittadini attivi e impegnati», è con questa esortazione che si esprime Henrietta Fore, Direttrice generale dell’UNICEF, a riprova di come la disinformazione, accanto ai conflitti interminabili, alla crisi climatica, e alle affezioni psichiche costituisca una delle minacce più gravi per le giovani generazioni.

Oggi poi con la pandemia in corso il pericolo è ancor più insidioso e mette a repentaglio anche il diritto alla salute. Mentre molte persone condividono informazioni sul virus e su come proteggersi da esso, solo alcune di queste informazioni sono utili o affidabili. La disinformazione in tempi di crisi sanitaria può diffondere paranoia, paura e stigmatizzazione. Può anche portare a persone lasciate non protette o più vulnerabili al virus.

Secondo quanto emerso dall’ultimo Rapporto dell’Osservatorio sul giornalismo, “La professione alla prova dell’emergenza Covid-19” di Agcom, durante l’emergenza Covid-19, i tre quarti dei giornalisti italiani (73%) si sono imbattuti in casi di disinformazione: il 78% di questi almeno una volta a settimana, mentre il 22% addirittura una volta al giorno. La maggior parte di queste false informazioni ha viaggiato su fonti online non tradizionali (social, motori di ricerca, sistemi di messaggistica).

In tal senso, anche l’UNICEF sta attivamente adottando misure per fornire informazioni accurate sul virus collaborando con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le autorità governative e con partner online come Facebook, Instagram, LinkedIn e TikTok per assicurarsi che siano disponibili informazioni e consigli accurati, oltre ad adottare misure per informare il pubblico quando emergono informazioni imprecise.[2]

Qualche anno fa la stessa fondazione, in un rapporto sul tema Perils and Possibilities: growing up online”, evidenziava – attraverso un’indagine campionaria condotta su oltre 10 mila ragazzi in 25 paesi – che la larga maggioranza degli adolescenti manifesta confidenza nelle proprie abilità digitali e che circa il 90% degli intervistati ritiene di sapere evitare i pericoli generati dal mondo interconnesso.

Un atteggiamento polivalente che non trova corrispondenza nelle evidenze cui anche i fatti di cronaca ci hanno tristemente abituato. Agli albori della quarta rivoluzione industriale, secondo la maggior parte degli adolescenti, infatti, il pericolo più grande che li riguarda proviene dalla tecnologia, ma al riguardo, la maggioranza di essi manifesta una certa sicurezza nelle proprie competenze digitali, pur dimostrandosi preoccupata.

Certo è che in questo scenario, il rapporto tra i giovani e le nuove tecnologie si manifesta controverso. Come in un moderno odi et amo di catulliana memoria, gli adolescenti sono rapiti dalle nuove opportunità di socialità che la Rete innegabilmente offre, ma ne sono, al contempo, spaventati.

Il problema è che adolescenti e giovani si ritrovano sempre più spesso nel web senza aver ricevuto le dovute cautele.

LA FUGA DELLE NUOVE GENERAZIONI DAI MEZZI TRADIZIONALI E LA SEMPRE MAGGIORE DIPENDENZA DALLA RETE

Come ha ben rilevato Marc Prensky[3]gli studenti di oggi non sono più le persone per cui il nostro sistema educativo è stato disegnato”.

Questo cambiamento nella natura dei giovani è esattamente il punto centrale.

I minori di oggi sono individui che godono di ampi tratti di autonomia nell’accesso ai sistemi di comunicazione. La fruizione avviene o in modo individuale o mediante l’interazione con i coetanei. Non solo è cambiata la tecnologia, ma sono profondamente cambiati anche gli utenti. Il soggetto da tutelare è un soggetto tecnologicamente esperto e dotato di uno strumentario tecnologico personale (PC, webcam, smartphone, tablet) che utilizza autonomamente nell’intero arco della giornata. 

I giovani si rifugiano sempre più spesso tra i social, e lo fanno per informarsi, ma soprattutto per fare mille attività quotidiane. Secondo la ricerca realizzata da Fondazione Mondo Digitale, nell’ambito del progetto Vivi Internet Al Meglio, in collaborazione con Altroconsumo e Google, la grande maggioranza degli intervistati, sia giovani (48,2%) che adulti (44,8%), considera Internet il principale veicolo di informazione. Fra i giovani emerge anche l’ampio utilizzo dei social network a fini informativi, che, invece, sono consultati soltanto da 1 adulto su 3. Proprio i social, però, insieme al passaparola, sono ritenute fra le principali fonti di disinformazione sia secondo i giovani (per il 90% i social, per il 46% il passaparola) che per gli adulti (per il 96% i social e per il 46% il passaparola).

Un altro aspetto correlato è l’allontanamento dei giovani dall’informazione più tradizionale, in parte essere legato alla presenza di un’offerta che non soddisfa le esigenze delle nuove generazioni. Le evidenze mostrano che in Italia – ma la situazione è simile anche in altri Paesi – gli stili comunicativi, i punti di vista, le tematiche trattate dai mezzi informativi tradizionali non si attagliano alle esigenze delle coorti più giovani.

Secondo un report di Agcom del 2020 (L’informazione alla prova dei giovani), l’età media delle audience di tutti i mezzi informativi è generalmente più alta dell’età media della popolazione italiana, con l’eccezione delle testate online che comunque presentano una età media di chi le segue pari a 44 anni.

L’assenza di punti di vista nuovi e giovani sposta inevitabilmente questi ultimi verso nuovi tipi di narrazione della realtà.

Si consideri che molti dei prodotti informativi tradizionali (quotidiani, periodici, telegiornali, radiogiornali) non sono stati interessati negli ultimi decenni da significative innovazioni di prodotto. Ciò li rende di fatto spesso meno attraenti per le giovani generazioni, che si riconoscono in prodotti e servizi legati alla rete. In definitiva, l’elevata domanda di informazione tra i giovani si scontra con i molteplici limiti derivanti dall’attuale offerta, innescando una specie di ghettizzazione dei giovani nel mondo della rete, spesso unico medium in grado di dare voce alle loro esigenze informative (e non solo). A ciò consegue la maggiore dipendenza delle coorti più giovani da una sola fonte informativa, quasi sempre internet.

Tale situazione determina inevitabilmente delle criticità dovuta alla dipendenza dalle singole fonti, e punti di vista. I giovani, infatti, mancano di quel bagaglio di strumenti, esperienze e conoscenze grazie alle quali si attivano i processi di apertura a più fonti e, di conseguenza, a punti di vista e orientamenti culturali diversi.

In rete accanto a fonti professionali e qualificate, proliferano altre che non rispondono a tali requisiti. Si tratta di un aspetto particolarmente problematico nei minori, ancora in fase di costruzione delle capacità cognitive e conoscitive necessarie ad avere un approccio critico.

Agcom ha rilevato che, nella fascia tra i 14 e i 17, circa il 40% dei soggetti intervistati rischia di incorrere nelle fake news, percentuale che si riduce – seppur di poco – nella fascia successiva, attestandosi al 32%. Si può quindi concludere come i minori più delle altre coorti della popolazione commettano errori nel processo di attribuzione delle notizie proposte alla categoria vero/falso.

Con l’avvento delle piattaforme digitali la manipolazione dell’informazione ha assunto una nuova portata sia in termini di dimensioni del fenomeno, sia in termini di capacità di condizionamento dell’opinione pubblica, dinanzi alla quale siamo ancora giuridicamente deboli.

L’inapplicabilità di regole sulla responsabilità editoriale e, quindi, di quei canoni di correttezza e professionalità giornalistica, consente di registrare un aumento sempre crescente della diffusione di notizie false e tendenziose da parte di siti e altre fonti che operano intenzionalmente con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica.

Per raggiungere un’informazione libera si pone la necessità di distinguere, non solo tra notizie verificate e non, ma anche, all’interno di queste ultime, tra quelle false, superficiali o pilotate allo scopo di attirare audience.

Ecco che allora, riprendendo le considerazioni del rapporto del Consiglio d’EuropaInformation Disorder Toward an interdisciplinary framework for research and policymaking”,[4] dobbiamo rilevare come vi sia un’erronea concezione del fenomeno fake news, almeno dal punto di vista lessicale.

È infatti riduttivo relegare la questione solo a queste: l’inquinamento informativo non consta esclusivamente di notizie false. Infatti – oltre alla mis-information, che si verifica quando queste notizie sono condivise con l’intento di non apportare alcun danno; e alla dis-information, quando le notizie false vengono consapevolmente condivise per causare danni – si affianca quella mal-information, che si riscontra quando invece notizie tendenzialmente autentiche vengono manipolate e condivise per provocare danni, come avviene per l’hate speech e i leaks, ossia quelle indiscrezioni che diventano la verità. 

Non a caso un paper[5], pubblicato sulla Rivista in Journalism Studies, ha rilevato come, su un esame di 34 articoli accademici che utilizzavano il termine “notizie false”, ciascuno di essi le abbia definite seguendo punti di vista differenti: da quelle di satira, alla parodia, a quelle con intenti manipolativi, fino alla pubblicità e alla propaganda.

Più ampiamente quindi dovremmo discutere di “information disorder”, in modo da descrivere tutte le sfaccettature di cui può essere vittima la comunicazione online. Anche il report, pubblicato dall’High level Group della Commissione Europea, sufake news and online disinformation, piuttosto che di fake news, ha ritenuto più corretto parlare di disinformazione, definita come un’“informazione falsa, inesatta o fuorviante progettata, presentata e promossa a fini di lucro o per causare intenzionalmente danno pubblico o per profitto”. Non si tratta solo di una questione terminologica, il rischio è quello di semplificare eccessivamente un problema molto complesso.

QUALE APPROCCIO VERSO IL FENOMENO?

Conquistare il contenuto delle notizie rappresenta solo un aspetto della questione, cui segue la conquista dell’attenzione degli utenti e infine quella delle menti.

Più praticamente questo processo si fonda su alcune faglie, su elementi di vulnerabilità dell’informazione. Se pensiamo ai social, rileviamo come questi siano i principali portatori di questo fenomeno, ma perché?

Sicuramente per la loro funzione: essi infatti in quanto aggregatori di diverse fonti, ostacolano il lettore nel source-checking, con la conseguenza che ci si focalizzi più sulla storia che sulla fonte.

Un ulteriore elemento riguarda le modalità di funzionamento, ossia la selezione su cui si articola l’offerta informativa fondata su notizie che amici e contatti hanno condiviso o sulla base degli algoritmi.

La conseguenza è che se gli utenti ritengono che sia troppo costoso cercare e convalidare informazioni da fonti diverse, potrebbero fare affidamento su informazioni distorte che corrispondono ai loro preconcetti, favorendo potenzialmente i lock-in ideologici.

Secondo Filippo Menczer, del Center for Complex Networks and Systems Research (CNetS), la disinformazione online segue la struttura della rete e tende a polarizzare l’aggregazione di informazioni e di persone. In questo modo nascono quelle “echo chambers”, in cui agli utenti sono presentate in maniera amplificata soltanto le notizie che già riflettono le opinioni e preferenze politiche favorite in base a quelle scelte in precedenza o ad altri parametri di personalizzazione. La conseguenza è che le narrazioni rischiano di essere autoreferenziali e l’informazione polarizzata.

In questa fase, collaborare alla redazione di regole che realizzino un punto di equilibrio fra i diversi interessi in gioco (quali libertà di espressione, pluralismo dell’informazione, privacy) facendo leva sul livello di responsabilità del web, è una delle sfide più difficili – ma non per questo meno necessarie – del nostro secolo.

Non dimentichiamo che all’interno della Rete c’è tutto, ci sono le nostre persone e si esprimono le nostre libertà, che si traducono in diritti. E i diritti, in quanto tali, hanno bisogno di regole, non per limitare le libertà, ma proprio per garantirle. Le nuove tecnologie, infatti, per quanto sconvolgenti siano, non mutano gli elementi fondamentali della convivenza civile.

CONCLUSIONI

Come per ogni mutamento non dobbiamo pensare che gli strumenti precedenti siano più sicuri di altri, quanto piuttosto comprendere come adeguarci e rendere i nuovi mezzi di partecipazione democratica realmente tali. Non dimentichiamo che come Popper è stato sconfessato quando considerava la televisione “cattiva consigliera” o Socrate quando riteneva che la scrittura avrebbe ucciso la conoscenza (allora solo orale), anche la tecnologia moderna in quanto tale non è in grado di renderci più o meno vulnerabili. Come per ogni mezzo è il modo con cui viene utilizzato a rendere questo utile o dannoso. Certo, in assenza di quella che potremmo definire una telematica trasparente, l’uso ambiguo delle tecnologie può produrre forme di partecipazione molto fragili. Ma questo è solo una parte del problema. Occorre evitare che l’effetto Dunning-Kruger si propaghi. Quella distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti tendono a sopravvalutarsi si può verificare in tutti i settori: dal politico che, forte del suo consenso social, crede di garantire una partecipazione reale dei suoi elettori al processo democratico, al giornalista che non verifica appieno le fonti, fino al cittadino che ritenendo adeguate le sue conoscenze o competenze digitali finisce per autoconvincersi della sua capacità di discernimento tra falso e reale o del suo effettivo intervento nella gestione della res publica. Dinanzi a questi eventi, il pericolo, come ben delinea, il sociologo francese Gérald Bronner, è solo quello di dar forma alla “democrazia dei creduloni”.


[1] John Dewey (Burlington, 20 ottobre 1859 – New York, 1º giugno 1952) è stato un filosofo e pedagogista statunitense.

[2] In tal senso la Dichiarazione di Charlotte Petri Gornitzka, vicedirettore esecutivo UNICEF per le Partnership

[3] È uno scrittore statunitense, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento. È conosciuto come l’inventore e divulgatore dei termini “nativo digitale” e “immigrato digitale”.

[4] https://rm.coe.int/information-disorder-toward-an-interdisciplinary-framework-for-researc/168076277c

[5] Si veda Edson C. Tandoc Jr., Zheng Wei Lim & Richard Ling, Defining “Fake News” A typology of scholarly definitions, in Journalism Studies Volume 6, 2018 – Issue 2 https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/21670811.2017.1360143?scroll=top&needAccess=true

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